dal: 24-04-2018 al: 29-04-2018
Terminato
Via Pier Lombardo, 14, 20135 Milano
Tel: 02 599951

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SCHEDA SPETTACOLO: PUEBLO

Stagione 2017-2018
Di Ascanio Celestini
Regia di Ascanio Celestini
Cast Ascanio Celestini
Una produzione Fabbrica srl
Recensione di: Tommaso Chimenti Voto 0

Va bene la cifra, va bene lo stile riconoscibile, va bene la firma, lo scenario, il linguaggio, le atmosfere riconducibili a quel filo di fondo che lega tutti i lavori di un artista, le perle di un percorso rintracciabili che fanno coerenza. Il difficile è non cadere nella ripetizione. Ascanio Celestini torna a calcare la mano e la penna nello stesso inchiostro anche per il suo nuovo Pueblo, set degli ultimi della società, dei diseredati, di quelli che non hanno voce in capitolo. C’è il classico supermercato, simbolo del capitalismo e del consumismo da odiare e da abbattere, i grandi parcheggi assolati d’estate e gelidi d’inverno, che fanno solitudine e vuoto dell’anima, l’asfalto, i caseggiati con le finestre ad alveare, i barboni che vagano come zombie, gli zingari che rubano perché non hanno altra scelta né possibilità. Un affresco suburriano. Sembra di stare in uno degli spettacoli-orazioni passate (si stanno pericolosamente assomigliando) del drammaturgo romano di Casal Morena. Anche la scrittura, prima a raggiera, a pioggia, e con il passare e l’incedere della narrazione a focalizzarsi su un dettaglio fino a farlo diventare protagonista principe, è qualcosa di prevedibile, conosciuto. Ce lo aspettiamo. È la seconda parte di una trilogia, dopo il potente Laika, ma il racconto si fa stanco, faticoso e affaticato (soprattutto nel seguire le dinamiche della storia), prima da dietro una tenda che sembra quella della doccia o da cabina elettorale, poi sul fronte scena. Celestini è il poeta che canta gli ultimi, quelli che non saranno mai primi nemmeno, se c’è, nel regno dei cieli: matti, sbandati «negri afrigani». La voce fuori campo inserita di un bambino, alter ego e contraltare, rompe il flusso (o delirio dialettico), spezza quella magia sonnacchiosa che faticosamente, a tratti, riesce a creare. L’autore di Pecora nera si sporca ancora le mani aprendoci i cassetti della povertà, di quell’umanità ai margini, le violenze, le umiliazioni, i rifugi, le zone d’ombra, il gioco d’azzardo, gli abusi sui minori. E poi tutto quel politicamente scorretto che lo slang di strada permette e del quale è impregnato: «le suore bastarde», Dio che dice: «Porca madoska» oppure «Fatemi fare sti cazzo di miracoli». A Celestini è permesso, ma non convince a pieno.