Salvo diversa indicazione, gli orari degli spettacoli al Piccolo sono: martedì, giovedì e sabato, 19.30; mercoledì e venerdì 20.30; domenica 16.
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SCHEDA SPETTACOLO: Don Giovanni

Non semplicemente un personaggio letterario quanto un mito, ovvero filosofica epitome di dubbi esistenziali: secoli di critica letteraria paiono avere sottratto carnalità al seduttore seriale disegnato da Tirso de Molina, e poi da molti altri, tramutandolo in paradigma di riflessioni non sempre a lui realmente riconducibili. Ecco, allora, che Valerio Binasco, mettendo in scena il dramma di Molière – ma con il sipario iniziale, ispirato al teatro d’ombra con accompagnamento musicale dei Led Zeppelin, tratto dall’autore spagnolo che per primo ne fece un personaggio teatrale – sceglie di portare sul palcoscenico un Don Giovanni di carne e sudore, spietato e umorale, devoto alle proprie pulsioni e istintivamente egocentrico. Un seduttore compulsivo per nulla seducente, anzi corpulento e quasi brutale, trasandato e dai modi tutt’altro che aristocratici, che Gianluca Gobbi incarna con convincente implacabilità. Ed è propria questa sua istintuale carnalità che, paradossalmente – ma poi neanche tanto – affascina le donne – la novizia Elvira come le popolane Charlotte e Maturina – vinte dall’irresistibile dominio dei sensi.
Binasco costruisce una realtà decadente – la parete scrostata di un palazzo nobiliare della cui manutenzione nessuno si preoccupa da tempo, ovvero la brandina su cui dorme il protagonista – in cui la speculazione filosofica pare oziosa e non pregnante agli occhi tanto degli avventori del bar in cui lavora Charlotte – il regista inserisce, come è nella sua peculiare cifra stilistica, attualizzazioni che introducono una nota di surreale ironia – quanto dei nobili fratelli di Donna Elvira. A dominare sono le pulsioni primarie, per soddisfare le quali nessuno scrupolo è ammesso: se, dunque, Don Giovanni si rivela un vero e proprio delinquente, mascalzone niente affatto amabile anzi cinicamente ferino, non appaiono eticamente migliori né le sue vittime – Elvira lesta ad abdicare alla propria vocazione religiosa, Charlotte a dare il benservito al promesso sposo – né i suoi nemici, compreso quel Commendatore che, più che emissario del divino, pare autore di una vendetta tutta umana.
E che dire di Sganarello: la regia fa pronunciare più volte all’agile Sergio Romano, urlandola, la celebre battuta finale, a suggellare uno spettacolo intriso di ben scarsa fiducia in un’umanità incapace di esplorare la propria interiorità, andando aldilà dell’istinto e della brama di denaro e di possesso.