dal: 19-01-2017 al: 12-02-2017
Terminato
Largo Greppi, 1, Milano
Tel: 848 800 304
Orari:

Salvo diversa indicazione, gli orari degli spettacoli al Piccolo sono: martedì, giovedì e sabato, 19.30; mercoledì e venerdì 20.30; domenica 16.

Prezzi: 12 < 32 €

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SCHEDA SPETTACOLO: PINOCCHIO

Stagione 2016-2017
Di Antonio Latella, Federico Bellini e Linda Dalisi
Regia di Antonio Latella
Cast Anna Coppola, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, ichele Andrei, Marta Pizzigallo, Massimiliano Spezian, Matteo Pennese e Stefano Laguni
Una produzione Piccolo Teatro Di Milano - Teatro D’Europa
Voto 0

PRO E CONTRO: il confronto, pubblicato su Hystrio 2.2017, fra Claudia Cannella e Giuseppe Liotta

Bisogna partire dal romanzo di Carlo Collodi, e solo da lì, per comprendere il Pinocchio di Antonio Latella. Perché, di quella struttura narrativa, polisemica e inquietante, la drammaturgia, realizzata da Federico Bellini, Linda Dalisi e dallo stesso regista, rispetta tutti i passaggi e i personaggi, ma illuminandoli di nuovi, folgoranti spunti di riflessione, assecondata da una cast di strepitosa bravura. Al centro due temi portanti: la menzogna e il rapporto con i padri. La prima menzogna la dice Geppetto, sostenendo di volere un figlio burattino. Pinocchio, abile apprendista, ammazza il Grillo Parlante (la sua coscienza) e impara alla svelta a fare altrettanto. E subito scappa da casa, scontrandosi con la realtà. Su una scena nuda, che rivela l’artificio del teatro e della sue macchinerie, coperta da un’incessante “nevicata” di trucioli, Pinocchio (Christian La Rosa, talento straordinario, una conferma dopo il sorprendente Oreste in Santa Estasi) intraprende un percorso iniziatico fra il mondo dei vivi e quello dei morti. In entrambi incontrerà figure paterne più o meno negative (Geppetto, Mangiafuoco, il giudice, l’omino verde, il padrone del circo) non a caso interpretate tutte dallo stesso attore, un Massimiliano Speziani in stato di grazia per gli innumerevoli registri interpretativi squadernati. A far da cesura tra i due mondi, l’impiccagione del burattino e l’incontro con la Fata Turchina, una bambina morta di cento anni (parole di Collodi), che si propone ambiguamente come sorella del burattino. Ma mente pure lei perché – si scoprirà alla fine -, regina di quella “città dolente” (frequenti i richiami danteschi), per soddisfare egoisticamente un desiderio di maternità inappagato da viva, ha dato il via, da morta, alla genesi di Pinocchio attraverso Mastro Ciliegia (Anna Coppola, anche, non a caso, nel ruolo della Fata) che, col suo collodiano naso turchino, ha regalato a Geppetto il fatidico ciocco. Risultato: un “figlio” di legno senza madre, che vorrebbe essere a tutti i costi un bambino in carne e ossa. Nel regno dei morti, avvolto nella nebbia e nella pregnante partitura sonora di Franco Visioli, Pinocchio farà i conti con la sua metà oscura (Lucignolo), con lo stordimento da rave party del Paese dei Balocchi, con la pedofilia del direttore del circo, che abusa di lui, trasformato in asino, fino a “romperlo” per poi rivenderlo. Intuizioni geniali di una regia fortemente autoriale, ma anche fedele al romanzo, che culmina, unica vera licenza, in un finale terribile in cui Pinocchio ritrova sì Geppetto nel ventre della balena, ma, non più burattino e finalmente uomo, viene da lui rifiutato. Un doloroso romanzo di formazione, lucido e spietato, dove non c’è happy end nella sempre complessa relazione tra padri e figli. Claudia Cannella  

 

Un’immagine così livida, sghemba, oscura, intricata e spiazzante come quella offertaci dal Pinocchio di Antonio Latella non s’era mai vista sulle scene teatrali. Nulla di male: uno dei segreti del teatro è andare “contro” le attese rassicuranti del pubblico e inaugurare nuove forme di visione e di ascolto. A patto, però, di rispettare le regole del gioco: leggibilità, esecuzione chiara e coerente, intelleggibilità del fine, beneficiario dell’evento. Domande che non trovano risposte convincenti nella ridondante e squilibrata messa in scena latelliana. A cominciare da uno scenario oppressivo, da bottega degli orrori, in cui interno ed esterno formano un unico paesaggio surreale e ultraterreno. Subito scoperta la carta di una metateatralità funzionale a se stessa, come quelle gigantesche macchine del vento e del tuono usate a vista, o il gigantesco tronco d’albero che sovrasta a mezz’aria il palcoscenico, simbolo di troppe cose, o forse di nessuna, esiti sovrabbondanti di una macchineria teatrale celibe che sembra andare avanti più per inerzia che per necessità espressiva. Qui, realismo, mistificazione e fantasia vengono mescolati come in un incubo e non ci sono veri incontri fra i tanti personaggi della storia, ma una serie stravagante di inquietanti apparizioni. Da un punto di vista più strettamente drammaturgico e testuale sono tanti, e a volte dissonanti fra di loro, i livelli di interpretazione e di analisi del racconto di Collodi che si sovrappongono e si attraversano l’un l’altro (psicoanalitico, metaforico, strutturale) senza che ne prevalga uno a rendere omogeneo il discorso. L’appunto intertestuale prende il sopravvento su una vicenda teatrale non lineare e continuamente interrotta, complicata anche dal fatto che molti attori ricoprono più ruoli. Si procede per espansione, accumuli di episodi, piuttosto che per sviluppo narrativo. Oltre al ceppo appeso al collo come nostalgia del suo passato di burattino, il povero Pinocchio di Latella viene caricato di altri problemi e responsabilità quando lo scopriamo a fare anche i conti con il parco-giochi della modernità e lo stupido edonismo contemporaneo. Tutto ciò produce nello spettatore un costante spaesamento percettivo e, quando si arriva alla sequenza finale, viene ribaltata persino la lettura tradizionale dell’opera e ci viene presentato un Pinocchio padre di Geppetto. Bella idea, sostenuta, nell’omonimo libro, anche da Domenico Mazzullo e Alessandro Gioia, ma che arriva a tempo ormai scaduto. Giuseppe Liotta