dal: 17-04-2018 al: 22-04-2018
Terminato
Via Ciro Menotti, 11, 20129 Milano
Tel: 02 3659 2544
Orari:

lunedì riposo
martedì, giovedì, venerdì, sabato ore 20.30
mercoledì ore 19.30
domenica ore 16.30

Prezzi: 12,50 < 25 €

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SCHEDA SPETTACOLO: LINGUA DI CANE

Stagione 2017-2018
Di Giuseppe Cutino e Sabrina Petyx
Regia di Giuseppe Cutino
Cast Elisa Di Dio, Franz Cantalupo, Mauro Lamantia, Noa Di Venti, Salvatore Galati e Sara D’Angelo
Una produzione con il sostegno dell’Università KORE di Enna e dell’Assessorato Regionale al Turismo e allo Spettacolo e L’Arpa - Compagnia Residente - Teatro Garibaldi Di Enna
Recensione di: Giuseppe Montemagno Voto 3

«Io il mondo lo voglio vedere dall’alto», dice uno. Come su una di quelle mappe spiegazzate dove ogni punto corrisponde a una città, dove Roma e Parigi, New York o Tunisi hanno tutte la stessa grandezza, la stessa importanza. È un sogno di globalizzazione, Lingua di cane, lavoro sul tema dei migranti su cui tanto si attarda la drammaturgia contemporanea: ma qui con alcune peculiarità che fanno dello spettacolo un piccolo, vibrante, commovente affresco.

Di noi, di quelli che siamo stati, in giro per il mondo, in cerca di accoglienza e di lavoro; di loro, costretti a inventarsi lingue improbabili e mestieri inverosimili per chi poco comprende della complessità geopolitica del bacino mediterraneo, del quale la Sicilia è ombelico e terra d’involontario confronto. Sei attori raccontano quella Storia che si nutre di tante storie: gesti e immagini, frammenti di vite e brandelli di anime che i riflettori illuminano ora dall’alto di vertigini oniriche; ora dal basso, dal profondo di abissi dove giacciono come lingue di cane, pesci che non vivranno, non lasceranno traccia.

Perché questo rimane l’interrogativo che scuote la scena: si può naufragare, si può soccombere, scom- parire de nitivamente? Cutino e Petyx impaginano una partitura polifonica, una scrittura coreografica fatta di braccia protese e polmoni che ansimano, di mani in rivolta e di piedi che sprofondano, di un freddo che ti penetra dentro e non ti abbandona; in una scena vuota, scarna, sommersa, sepolta unicamente dalle mille camicie, dai piccoli fardelli dei signor nessuno che preferiamo dimenticare.

Ma alla fine lasciano l’impressione che ritorni il sereno, le ombre si diradino e la scena si liberi – salvo issare un’installazione che, per forza evocativa, rivaleggia con la Venere degli stracci e l’arte povera di Pistoletto. Che questa immagine faccia brillare gli occhi limpidi degli attori e quelli, altrettanto lucidi, di tanti spettatori, lascia capire che il teatro, a volte, è ancora in grado di colpire. E affondare.