Salvo diversa indicazione, gli orari degli spettacoli al Piccolo sono: martedì, giovedì e sabato, 19.30; mercoledì e venerdì 20.30; domenica 16.
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SCHEDA SPETTACOLO: IL GIARDINO DEI CILIEGI
A quasi vent’anni dal suo primo Giardino (ospite al Piccolo Teatro di Milano nel 1998), Dodin torna oggi con una seconda versione. Cupa, malinconica, metallica la prima (i ciliegi erano di ferro), semplice, spoglia, forte, energica la seconda, dove i ciliegi sono proiettati su un grande schermo bianco che chiude il palcoscenico, escludendolo dall’azione: gli attori recitano in sala, i pochissimi arredi sono disposti lungo il proscenio davanti alla prima fila di spettatori. Scelta curiosa, forse non del tutto adatta alla sala del Teatro Strehler: rende comunque molto più dinamico lo svolgersi del dramma cechoviano, costringe gli attori a muoversi in mezzo al pubblico, a fare a meno della stanza dei bambini, dei giochi, dell’infanzia perduta. Il ballo sì, si svolge in palcoscenico, ma è un ballo spoglio, squallido come deve essere nel testo. Cechov regge benissimo senza chicchere, sedie, divani.
Il testo ha subito qualche consistente taglio, per esempio l’inizio, con l’arrivo diretto dei viaggiatori provenienti da Parigi, senza la scena di attesa con Lopachin, Dunjaša, Epichodov. Ma va bene così. Come va bene il terzo atto senza i giochi di prestigio di Charlotta: tutto procede più spedito. Discutibile invece la scelta di trasformare l’imbarazzato rapporto Lopachin-Varja in rozza seduzione da parte del nuovo padrone del giardino dei ciliegi: poco credibile, non è cosa da Cechov ridurre il timido dialogo del quarto atto a una scopata. Altra caduta di gusto: Lopachin che canta a squarciagola My way, dopo la scena dell’asta. Che c’entra Sinatra?
Ma il resto è davvero magnifico, asciutto, stringato, a tratti emozionante. Un sicuro elemento vincente: gli interpreti. Ksenia Rappaport è Ljuba: inquieta, brusca, senza smancerie, un’interpretazione adatta ai nostri giorni altrettanto inquieti. Perfetta Elizaveta Bojarskaja come Varja: anche lei spiccia, schiva, concreta, finalmente non una monachina ma una donna forte, consapevole, ferita ma non piegata. Danila Kozlovskij era Lopachin: giovane, bello, sicuro, un po’ troppo consapevole del suo fascino, della sua vittoria, dunque meno interessante. Andrebbero citati tutti, ma mi limito alla poetica Charlotta, Tatjana Chestakova, che nella precedente edizione era Ljuba: qui un cammeo poetico indimenticabile. Dodin? Grande regista.