Salvo diversa indicazione, gli orari degli spettacoli al Piccolo sono: martedì, giovedì e sabato, 19.30; mercoledì e venerdì 20.30; domenica 16.
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SCHEDA SPETTACOLO: Ragazzi di vita
Il maestro scomparso e l’attore prediletto che aspira a prenderne l’eredità. Il precedente del Pasticciaccio teatrale di Gadda e sullo stesso palcoscenico la teatralizzazione del primo romanzo del suo nipotino letterario PPP. L’apertura della stagione capitolina e la chiusura delle celebrazioni romane del decennale pasoliniano. Un insieme di elementi che fa di questa messa in scena di Ragazzi di Vita un appuntamento decisamente importante. Importante ma solo in parte convincente. A partire proprio dall’uso del testo alla base della forte drammaturgia curata da Emanuele Trevi, il quale ha optato per una frammentazione della narrazione letteraria con una figura portante a introdurre e collegare i capitoli/episodi selezionati e cuciti con grande libertà, ciascuno presentato dalla proiezione di un proprio titolo.
Ogni parola, parolina o parolaccia, ogni virgola o altro segno di punteggiatura sono rigorosamente rispettati e mutuati dalla pagina pasoliniana e le frasi letterarie diventano così le battute giostrate in terza persona tra gli attori, proprio come succedeva nel celebrato Pasticciaccio ronconiano. Con una non trascurabile differenza: là dove il maestro orchestrava l’azione o la descrizione indicata nella frase di un interprete e la faceva eseguire altrove sul palco da un differente attore, ora Massimo Popolizio rende protagonista attivo dell’azione proprio l’interprete che la pronuncia, in un raddoppio parola/atto spesso pleonastico e non essenziale. Doppio sovrapposto che troviamo anche nella pratica del narratore (quasi una voce fuori campo del poeta di Casarsa) anteposta all’operare del personaggio del Riccetto, lo sguardo-giustificazione usato da Pasolini per entrare nelle borgate paraurbane della Roma sua contemporanea nella metà degli anni ’50, alla vigilia del boom, per descriverne caratteri, ambiente sociale, usi e cultura. Prostitute, barconi sul Tevere, borseggi sull’autobus, miseria del dopoguerra e casupole diroccate tra il fango, raggiri ai “frosci”, fame di tanta vita e di una qualche povera cibaria, un insieme narrativo che qui parte dall’acqua del Tevere col salvataggio di una rondine – preannuncio metaforico di possibile slancio verso una piena coscienza umana – e nell’acqua dell’Aniene va a finire con un annegamento che sancisce la morte definitiva di ogni riscatto. Con le canzoni di Claudio Villa o Luciano Tajoli e i ritmi del cha-cha-cha a chiudere i singoli quadro e dare una data esatta agli eventi.
Un cast di 19 attori continua a gridare, non solo in senso allegorico, coi corpi e con le voci tale inconsapevole e vitalissima disperazione, ma non arriva mai a convincere davvero, né epicamente brechtiano né veicolo di profonde emozioni. Non per demerito di chi calca la scena (davvero giusti tutti gli interpreti nell’insieme, con alcune eccellenze come Lorenzo Grilli e Alberto Onofrietti) ma per un’impostazione registica che forse non è stata spinta da un’intima istanza espressiva e ha finito per applicare le lezioni diligentemente apprese dal maestro scomparso. Ne è dimostrazione il fatto che le ingioiellate signore borghesi dell’Argentina si divertono, ridono di gusto e si danno di gomito scambiando quei drammi per episodi di una commedia all’italiana non più in B/N e finiscono per seguire l’invenzione linguistica pasoliniana come se fosse autentico dialetto romanesco, confondendo così l’autenticità delle vite violente con le disavventure picaresche di Rugantino.